Perplessità e interrogativi sull’art. 1, comma 2, lettera l) del D.L. Liquidità (D.L. 8 aprile 2020, n. 23 – Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali.).
L’attuale fase di emergenza sanitaria sta ridando centralità al ruolo delle Organizzazioni Sindacali, nella gestione delle dinamiche lavoristiche, che, ante COVID-19, era considerato in crisi.
Tralasciando le vicende Alitalia, ILVA, Whirlpool, Mercato Uno ecc. – che, per la loro straordinarietà, hanno comportato un coinvolgimento attivo delle Organizzazioni stesse, anche perché imposto dalle vigenti norme in materia di trasferimento di aziende e/o di ricorso agli ammortizzatori sociali – da tempo si discuteva, infatti, in termini semplicistici, della c.d. “crisi dei sindacati” e, più in generale, della crisi del sistema concertativo.
Rinviando ad altra sede, l’analisi delle ragioni, molteplici e di varia natura, poste a fondamento di tale fenomeno, oggi, a seguito di alcune norme contenute nella decretazione d’urgenza, dobbiamo registrare un forte recupero del loro funzione di rappresentanza dei lavoratori.
Si pensi, ad esempio, all’obbligo di consultazione e di accordo sindacale per il ricorso alla CIG in deroga, previsto dall’art. 22, comma 1, del D.L. 18 del 17 marzo 2020, anche per quelle aziende commerciali la cui attività è stata sospesa sull’intero territorio nazionale dal DPCM dell’11 marzo 2020, sino al 13 aprile 2020, allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19; successivamente prorogata, sino al 3 maggio 2020, con il DPCM dell’11 aprile 2020.
Obbligatorietà di preventiva consultazione sindacale e di accordo che, in presenza di un factum principis, appare del tutto fuori luogo al pari di quella richiesta dall’art. 19, comma 1, del Decreto Cura Italia stesso, per il ricorso alla CIGO o al FIS, a cui auspicabilmente dovrebbe porvi rimedio l’imminente emanazione della legge di conversione.
Se il coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali e, più in generale, delle c.d. Parti sociali è pienamente condivisibile nel momento in cui è necessario tutelare il bene primario della salute ed individuare tutte le possibili misure atte a garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, contenendo ogni possibile forma di contagio, non lo è altrettanto ove venga imposto alle imprese, già duramente provate, finanziariamente ed economicamente, dalla situazione in atto, come quello di assumere “l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”, contenuto nell’art. 1, comma 2, lettera l), del D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (D.L. Liquidità)
Tale laconica quanto impattante previsione impone, infatti, “[al]l’impresa che beneficia della garanzia” – rilasciata da SACE S.p.A. sul rischio creditizio delle aziende e sui rischi sistemici, in favore di banche ed istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali per i finanziamenti dalle stesse rilasciati in favore di società italiane – di assumere, come detto, “l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.
Prima di addentrarci sulla legittimità o meno, anche dal punto di vista costituzionale, di una simile previsione, rileviamo che il legislatore dell’emergenza ha già posto, con l’art. 46 del D.L. 18 del 17 marzo 2020 (c.d. Decreto Cura Italia), un forte vincolo alle imprese che, per ragioni di natura oggettiva, si erano determinate a procedere al licenziamento individuale, plurimo o collettivo di alcuni lavoratori alle proprie dipendenze, anche prima dell’insorgenza dell’emergenza sanitaria, nel rispetto della normativa di riferimento.
Tale norma, di cui si prevede la proroga, ha, infatti, precluso per 60 giorni, decorrenti dall’entrata in vigore del D.L. stesso (n.d.r. 17 marzo 2020) ”l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 ……. e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.”.
Presumibilmente questo vero e proprio blocco dei recessi aziendali, quanto meno per i primi 60 giorni, non dovrebbe gravare, più di tanto, sui disastrati bilanci delle imprese che hanno fatto o faranno ricorso agli ammortizzatori sociali ordinari e in deroga previsti, se non fosse per le pattuizioni migliorative spuntate dalle Organizzazioni Sindacali negli accordi sottoscritti a latere.
La criticità, che qui si vuole evidenziare, derivante dall’applicazione del richiamato art. 1, comma 2, lettera l), del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, è strettamente correlata al fatto che le problematiche occupazionali insorte, prima dell’emergenza, per le ragioni più varie (crisi aziendali, procedure concorsuali, riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, ecc.), che avevano determinato l’impresa ad attivare le procedure di legge, ora, dovranno concludersi con un accordo sindacale nel caso in cui l’impresa stessa, a causa della grave crisi economica e finanziaria determinata dall’emergenza, avrà fatto ricorso alla garanzia suddetta.
Se, finora, la sottoscrizione di un accordo sindacale in materia di licenziamenti collettivi è stata molto complicata, da ora in poi, nelle fattispecie in esame, lo sarà ancor di più e comporterà richieste, presumibilmente onerose, da parte delle Organizzazioni Sindacali, incompatibili con la situazione attuale e con quella a tendere nel medio lungo periodo.
E’ stato giustamente rilevato che “stiamo per entrare in un intenso periodo di “de-globalizzazione”. Il commercio mondiale, già in crisi per le tensioni sino-americane, crollerà dell’11% quest’anno, secondo l’Fmi. Per le società ciò significa passare da un lungo periodo in cui l’imperativo era la crescita di fatturato e profitti ad un periodo in cui la resilienza sarà all’ordine del giorno: meno impiegati, più tecnologia e concentrazione totale sul core business”.
“Meno impiegati” equivale a ridimensionamento dei livelli occupazionali che, in mancanza di una revisione degli attuali ammortizzatori sociali ordinari, comporta licenziamenti.
A prescindere da tali aspetti di carattere sostanziale, la norma stessa, così come formulata, pone seri dubbi di legittimità costituzionale. Se è vero e sacrosanto che il diritto al lavoro è tutelato in tutte le sue forme e applicazioni (cfr. artt. 1, 3, 4 Cost.) e che la Repubblica “Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro” (cfr. art. 35 Cost.) è, altrettanto, vero che l’art. 41 afferma che “L’iniziativa economica privata è libera”, riconoscendo, così, tra l’altro, la libertà d’impresa di organizzarne le risorse umane e materiali necessarie per svolgere la propria attività; senza, tuttavia, “…. svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”.
Nel rispetto di questi principi sono stati dettati e sono, tutt’ora, pienamente vigenti le leggi: 20 maggio 1970 n. 300 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”); 15 luglio 1966, n. 604 – “Norme sui licenziamenti individuali”; 23 luglio 1991, n. 223 – “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro” ed il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
Non si comprende, quindi, la ragione per la quale il legislatore dell’emergenza abbia ritenuto di dover introdurre, a carico delle imprese, che intenderanno ricorrere e beneficiare della garanzia prevista dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23, l’obbligo ad assumere l’impegno a “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.
E quali conseguenze potrà comportare la violazione di un simile “impegno”?
Le ipotesi possono essere di duplice natura; la prima che, ancorché invitate dall’Impresa, beneficiaria della garanzia, a discutere e a concordare su una riduzione dei livelli occupazionali, le Organizzazioni Sindacali si dichiarino contrarie; la seconda che non vengano invitate a discutere di alcunché e l’Impresa proceda alla riduzione di personale, nel rispetto delle richiamate vigenti norme di legge in materia.
Nella prima ipotesi, può l’Impresa procedere al ridimensionamento del proprio organico in mancanza di accordo? Sicuramente sì, a condizione che abbia rispettato le procedure esistenti. Ma con quali conseguenze sul finanziamento ricevuto? Questo, allo stato, non è dato sapere!
Nella seconda ipotesi, le Organizzazioni Sindacali potranno proporre un ricorso per comportamento antisindacale ex art. 28 della l. 20 maggio 1970 n. 300 – “Repressione della condotta antisindacale” consentito in tutti quei casi in cui “… il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale …”, ma con quali esiti ed effetti?
Il Tribunale del lavoro adito potrà sicuramente decretare il comportamento antisindacale dell’Impresa che senza “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” ha effettuato i licenziamenti, sia pure nel rispetto delle procedure di legge, ed ordinare “al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.
Il Tribunale potrebbe ordinare all’Impresa di attivare o riattivare, se conclusa senza “accordo”, la preventiva consultazione sindacale, finalizzata all’accordo, prevista dall’art. 1, comma 2 lettera l), del D.L. Liquidità e dichiarare inefficaci i licenziamenti intimati nel frattempo?
A tale proposito si ricorda che l’art. 28 prevede che “Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale.”.
Da ultimo, per non tralasciare, altri interrogativi, che la norma dettata dal D.L. Liquidità pone, occorre domandarsi se la norma stessa impone un obbligo di fare ai sensi dell’art. 2931 c.c., in forza del quale se il soggetto che vi è tenuto non adempie ad un obbligo di fare, l’avente diritto può adire l’autorità giudiziaria per ottenere che detto obbligo venga eseguito a spese dell’obbligato, secondo le forme e le modalità previste dal codice di procedura civile, agli articoli 612 e seguenti.
Forse talune delle criticità evidenziate non sono state preventivamente valutate, con tutto ciò che ne conseguirà in termini di incertezze e di negativi riflessi sulle relazioni sindacali.