Con la sentenza n. 12568, pubblicata in data 22 maggio 2018, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno statuito la nullità del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto.
La questione portata all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla coesistenza di due orientamenti giurisprudenziali di segno opposto, secondo cui, da un lato, il licenziamento intimato al lavoratore in ragione del protrarsi delle assenze per malattia prima del superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) sarebbe meramente inefficace fino allo scadere del periodo suddetto; dall’altro, il licenziamento così intimato sarebbe nullo ab origine per violazione di una norma imperativa, in particolare dell’art. 2110, comma 2 c.c..
Ai fini della risoluzione del contrasto così formatosi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che ammettere la validità del licenziamento intimato (sebbene momentaneamente inefficace) ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano superato il periodo massimo di conservazione del posto e, quindi, il verificarsi della condizione legittimante il recesso stesso, significherebbe consentire l’esistenza di una fattispecie di licenziamento che, all’atto della sua intimazione, sarebbe ancora sprovvista di giusta causa o giustificato motivo, ovvero non sarebbe sussumibile in altra autonoma fattispecie prevista ex lege.
Secondo la Corte di Cassazione, in questo modo, si realizzerebbe una fattispecie di licenziamento sostanzialmente “acausale”, con il rischio conseguente di aggirare l’interpretazione dell’art. 2110, comma 2, c.c., ed ignorare la sua “ratio”, che risiede nella garanzia del lavoratore ad avere diritto ad un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio, senza per ciò solo perdere l’occupazione.
Inoltre, la Suprema Corte ha puntualizzato che l’affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta all’applicazione del vigente testo dell’art. 18 L. n. 300/1970, essendo collocata la violazione dell’art. 2110, comma 2 c.c., al comma 7 anziché al comma 1 del sopracitato art. 18 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con la conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato, in luogo del regime reintegratorio pieno. Infatti “in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione della nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1, là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge”.
In ragione dei motivi sopra esposti, la Suprema Corte, dunque, ha deciso di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima della scadenza del periodo di comporto, aderendo a quell’interpretazione dell’art. 2110, comma 2, c.c., che, in lettura combinata con il disposto dell’art. 1418 c.c., evidenzia il carattere imperativo delle norme appena citate. In questo modo, viene affermata la priorità del valore della tutela della salute, ex art. 32 Cost., quale non potrebbe adeguatamente essere garantita, se non esistesse la previsione di tempistiche sicure entro le quali il lavoratore, malato od infortunato, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere il proprio posto di lavoro.
Allo stesso tempo, la Corte Suprema ha affermato che nulla osta a che, ad un eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva – errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo – possa seguire la tempestiva rinnovazione del licenziamento nullo, una volta che le assenze del lavoratore abbiano effettivamente superato il suddetto termine massimo.
A cura di Cristina Petrucci e Giacomo Arena