Il Tribunale di Roma, con la recente ordinanza emessa il 26 febbraio 2021, ha fornito una interpretazione del tutto innovativa e discutibile, della disciplina relativa al divieto di licenziamento introdotta per effetto dell’emergenza epidemiologica dall’art. 46, D.L. n. 18/2020, poi prorogata dall’art. 14, D.L. n. 104/2020 nonché dall’art. 12, D.L. n. 137/2020 e, da ultimo, dall’art. 1, commi 309-311, L. n. 178/2020, estendendola anche ai dirigenti.
Come noto, la normativa emergenziale suddetta prevede che le aziende, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non possano recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.
Orbene, al licenziamento del dirigente non si applica il concetto di giustificato motivo oggettivo tipizzato dall’art. 3 della legge n. 604/66, bensì un criterio di cd. “giustificatezza”, previsto non dalla legge, ma dalla contrattazione collettiva.
Pertanto, in base al tenore letterale della normativa emergenziale e, in base al combinato disposto dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020 che impone il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. n. 604/1966 e dell’art. 10 della medesima legge che esclude la categoria dirigenziale dal suo ambito di applicazione, sembrerebbe doversi desumere l’esclusione dei dirigenti dal divieto di licenziamento per ragioni oggettive.
Ciò nonostante, il Giudice ha ritenuto che il riferimento all’art. 3 della L. n. 604/1966 identifichi solo la “natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso” non delimitando, altresì, l’ambito soggettivo di applicazione del divieto.
Pertanto, secondo l’Organo giudicante, la disciplina in esame sarebbe applicabile anche alla categoria dirigenziale a motivo che la ratio della normativa emergenziale è quella di evitare che le generalizzate conseguenze economiche derivanti da una situazione di carattere eccezionale si traducano nella soppressione di posti di lavoro, esigenza ritenuta applicabile anche alla categoria dirigenziale che, anzi, è maggiormente esposta al rischio di recesso in virtù “della maggiore elasticità del regime contrattualcollettivo”.
Ad avviso del Giudice, adottando un’interpretazione differente, si potrebbe ravvisare un problema di ragionevolezza ex art. 3 Cost., reso maggiormente evidente dal fatto che il licenziamento di un dirigente nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo ex art. 24 L. 223/1991, diversamente dalla fattispecie del licenziamento individuale, è invece stato vietato dal legislatore emergenziale. Ed invero, il Tribunale aggiunge che, proprio l’operatività del divieto nell’ipotesi di licenziamento collettivo confermerebbe che il legislatore non abbia inteso fondare una distinzione basata sullo “status” del lavoro dirigenziale e sulla particolarità di esso.
Pertanto, in ragione di una lettura normativa costituzionalmente orientata, il Tribunale di Roma ha ritenuto nullo il licenziamento intimato al dirigente in data 23 luglio 2020 in quanto contrario ad una norma imperativa che vieta il recesso ed ha ordinato alla società datrice di lavoro la reintegrazione del dirigente nel posto di lavoro oltre il risarcimento del danno ed il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Prescindendo volutamente dall’esegesi dell’Ordinanza in esame, rileviamo che le conclusioni a cui è giunto il Giudice non sono condivisibili.
L’autorevole estensore, infatti, pur riconoscendo che la disciplina relativa al divieto di licenziamento, introdotta per effetto dell’emergenza epidemiologica dalle richiamate norme, comporta una compressione temporanea della libertà d’impresa, garantita dall’art. 41 della Costituzione, ha affermato che tale limitazione è “tendenzialmente destinata a trovare contemperamento in misure di sostegno alle imprese, ed ispirata ad un criterio di solidarietà sociale ex Cost 2, e 4: non lasciare che il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori. …..”.
Tuttavia, il “contemperamento in misure di sostegno alle imprese”, a cui il Giudice ha dovuto necessariamente far riferimento, sia pure en passant, non è altro che la possibilità, concessa “Ai datori di lavoro che nell’anno 2020 sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, di ricorrere ad ammortizzatori sociali ordinari o in deroga a partire dal mese di marzo 2020.
Ammortizzatori che, però, non ricomprendono la categoria dei dirigenti nella platea dei beneficiari.
E che solo e soltanto questo sia il “contemperamento” è confermato proprio dalla collocazione dell’art. 46 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, che ha disposto inizialmente il blocco dei licenziamenti, all’interno del Capo II “Norme speciali in materia di riduzione dell’orario di lavoro e di sostegno ai lavoratori” (n.d.r. ma non i dirigenti) e dalla lettura dell’art. 14 del D.L. 14 agosto 2020, n. 104 che, nel prorogarlo, fa espresso riferimento “Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 …”.
Analogamente, per quel che concerne l’ulteriore proroga sino al 31 marzo 2021 del blocco stesso, disposta dall’art. 1, commi 309-311, della Legge 30 dicembre 2020, n. 178, c.d. Legge di Bilancio, è sufficiente esaminare la relativa scheda di lettura che, nell’illustrare il divieto di licenziamento, evidenzia la stretta correlazione tra detto divieto e la concessione di ulteriori periodi di ammortizzatori sociali, affermando che questo è “ … in conseguenza della concessione di un ulteriore periodo massimo di dodici settimane di trattamenti di integrazione salariale per periodi intercorrenti tra il 1 ° gennaio 2021 e il 31 marzo 2021 per i trattamenti di Cassa integrazione ordinaria e …..”.
Poiché questo è il contesto normativo non si comprende come da una lettura per “via costituzionalmente orientata”, delle norme che escludono la categoria dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti, preferita dall’estensore dell’Ordinanza in questione, possa imporsi ad un datore di lavoro, in mancanza di ammortizzatori sociali, di sopportare il costo aziendale, sicuramente più elevato di quello delle altre categorie di lavoratori, di un dirigente che, per qualsiasi ragione, risulti in esubero a seguito di un riassetto organizzativo.
L’auspicio, quindi, è che l’azienda, rimasta contumace nel procedimento deciso con l’Ordinanza in esame, possa ottenerne la riforma nella fase di opposizione.
In verità e per completezza, giova menzionare l’Intesa Territoriale per la regolamentazione della CIGD della Regione Marche, del 20 marzo 2020, con la quale, tra l’altro, i dirigenti sono stati ammessi ad usufruire della Cassa Integrazione Guadagni in Deroga, con la seguente motivazione: “Sono ammessi alla CIGD anche i dirigenti del settore privato con rapporto di lavoro subordinato che non versano per legge i contributi per la CIGO e quindi non possono accedervi. “.
Per quanto consta, non risulta che in altre Regioni siano state adottate analoghe previsioni.
Rosario Salonia
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