La Corte Costituzionale, con sentenza dell’8 novembre 2018, n. 194 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015, come modificato dal D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96 nella parte in cui la norma determina l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, ritenendo innanzitutto che la stessa contrasti con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. “sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse”, ritenendo fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata sul punto dal Giudice rimettente. In particolare, secondo la Corte, la previsione scrutinata, nel prestabilire interamente il “quantum” in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, connota l’indennità come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, mentre è indiscusso che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori e, l’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è solo uno dei tanti.
A tal fine richiama ad es. l’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990) che lascia al giudice la decisione di determinare l’obbligazione alternativa indennitaria, sia pure all’interno di un minimo e un massimo di mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
Sempre con riferimento all’art. 3 Cost., il Giudice delle Leggi censura, altresì, la norma scrutinata in quanto in contrasto con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente. Peraltro, ha osservato la Corte, “la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio a quo”. In tal modo il legislatore tradisce la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.
Secondo la Corte, l’irragionevolezza del rimedio previsto dall’art. 3, comma 1, del D. lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (artt. 4, primo comma, che sancisce il diritto al lavoro e 35, primo comma, che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana. Infine, la norma censurata viola, secondo la Corte anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea secondo cui, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
In conclusione, la Corte afferma che, nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del D.lgs. n. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (come il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti).
Cristina Petrucci
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