La Corte di Cassazione, con sentenza n. 12204 del 14 giugno 2016, ha ribadito che “l’oggetto dell’accertamento dell’ingiuriosità o vessatorietà del recesso non è l’illegittimità del licenziamento, ma le sue modalità, con la conseguenza che l’eventuale ulteriore danno” che il lavoratore rivendica “diventa conseguenza, non della perdita del posto di lavoro e della retribuzione, bensì dello stesso comportamento ingiurioso, persecutorio, vessatorio con cui è stato attuato”.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha cassato la sentenza dei giudici di merito che avevano ritenuto che l’ingiuriosità del licenziamento fosse da ravvisarsi nella gravità dei fatti addebitati, rivelatisi poi infondati, tali da determinare una significativa lesione dell’onore e della reputazione dell’immagine professionale della dirigente, disattendendo, in tal modo, i principi giurisprudenziali consolidati secondo i quali il licenziamento ingiurioso o vessatorio, lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, che dà luogo al risarcimento del danno, ricorre soltanto in presenza di particolari forme o modalità offensive o di eventuali forme ingiustificate.