Con sentenza n. 2116 del 3 febbraio 2016, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un lavoratore che, sostenendo di essere stato vittima di comportamenti mobbizzanti (soprattutto correlati ad una serie di procedimenti disciplinari cui era stato sottoposto) da parte del proprio datore di lavoro, aveva richiesto a quest’ultimo il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale conseguentemente subìto.
La Suprema Corte, confermando la decisione di appello, ha sostenuto che le sanzioni inflitte al medesimo lavoratore non avrebbero potuto considerarsi “discriminatorie né motivate da una guerra psicologica” atteso che lo stesso lavoratore era risultato in numerose occasioni poco collaborativo, negligente e restio ad osservare e rispettare direttive ed ordini dei propri superiori, “avvelenando il clima d’ufficio” e non era stata, inoltre, comprovata alcuna volontà datoriale “obiettivamente e soggettivamente persecutoria”.