La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2885 del 10 febbraio 2014, richiamando il proprio orientamento in tema di mobbing – secondo cui tale fenomeno “è ravvisabile nella condotta del datore di lavoro, protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica)” – ha affermato che non potesse ritenersi sussistente nella condotta datoriale alcun intento persecutorio o una volontà di emarginare il lavoratore, ma semplicemente la semplice adozione di scelte organizzative che, pur non gradite al lavoratore, dovevano tuttavia ritenersi funzionali alle attività demandate allo stesso soggetto.