Con sentenza n. 18223 del 17 settembre 2015, la Suprema Corte ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui “il giudice deve operare solo (…) un confronto tra le mansioni svolte e la qualifica posseduta, perché è con riferimento a questa che va verificato se vi sia dequalificazione e, solo in caso di corrispondenza delle mansioni con la qualifica, può procedersi alla verifica – necessariamente successiva – di corrispondenza tra le mansioni pregresse e quelle successive, al fine di escludere anche un demansionamento. Nel rapporto di lavoro infatti non vi è solo un divieto di demansionamento del lavoratore, ossia divieto di attribuzione di mansioni inferiori a quelle pregresse, ma prima ancora un divieto dì dequalificazione, ossia di attribuzione di mansioni inferiori alla qualifica: l’art. 2103 c.c. infatti prevede non solo il diritto a svolgere mansioni non inferiori alle ultime svolte, ma prima ancora il diritto del lavoratore di vedersi assegnate le mansioni per le quali è stato assunto (ossia proprie della qualifica pattuita)”.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha confermato i provvedimenti emessi nei precedenti gradi di giudizio che avevano accolto la domanda di risarcimento del danno da demansionamento proposta dal dipendente di un istituto di credito che, in seguito ad un trasferimento in una nuova filiale, asseriva di essere stato adibito a mansioni inferiori rispetto sia a quelle svolte in precedenza, che a quelle di spettanza, ossia di un “quadro direttivo di secondo livello”.