Con riferimento all’individuazione del confine tra mobbing, fenomeno rilevante a fini civilistici nell’ambito del rapporto di lavoro, ed il reato di maltrattamenti, la sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 13088 del 20 marzo 2014, ha chiarito che “non ogni fenomeno di mobbing attuato nell’ambito di un ambiente lavorativo, integra gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”.
Conseguentemente, secondo la Corte, non può ritenersi configurabile una simile ipotesi di reato laddove, anche in presenza di un chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, non risulti sussistente, in forza delle caratteristiche della singola realtà aziendale, quella “stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare”.