Con ordinanza n. 741 del 9 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha ribadito che il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c. L’onere della prova dell’esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che lo deduce in giudizio.
Nel caso di specie, il responsabile di un esercizio commerciale aveva contestato il suo trasferimento in altra sede, ottenendo dal giudice di prime cure la riammissione al lavoro presso il punto vendita di provenienza.
A seguito di varie sanzioni disciplinari inflitte al lavoratore, il datore di lavoro lo aveva licenziato per giusta causa per avere, tra l’altro, “strattonato” una collega, a lui gerarchicamente sottoposta, dopo una discussione con la stessa sul recupero di alcune ore di straordinario.
La Corte di Cassazione, in riforma della sentenza della Corte di Appello che aveva ritenuto ritorsivo il licenziamento dichiarandone la nullità , ha ribadito il principio secondo cui, in tema di licenziamento nullo, il carattere unico e determinante del motivo illecito non può desumersi unicamente dalla mancata integrazione, per difetto di proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, come erroneamente ritenuto dai giudici di secondo grado, ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità.