La Suprema Corte, con la sentenza n. 22421 del 3 novembre 2015, ha precisato che, in ipotesi di accertamento giudiziale della nullità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, la reintegrazione del lavoratore deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il mutamento della sede, giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Tuttavia, nella specie, la reintegrazione era avvenuta a circa 800 km. di distanza dal luogo della precedente occupazione, stante l’avvenuta chiusura dell’unità produttiva in cui era occupata la lavoratrice che, quindi, aveva rifiutato la nuova sede.
I Giudici di legittimità hanno ritenuto illegittimo il licenziamento della lavoratrice per rifiuto al trasferimento della sede di lavoro, a sua volta giudicato illegittimo.
Secondo la Corte, infatti, è illegittimo il trasferimento e il successivo licenziamento per rifiuto del cambio di sede della lavoratrice che, pur non essendo titolare dei benefici della L. n. 104/1992, presenti un certificato dello stato di famiglia da cui emerga un parente convivente invalido al 100%.
Pertanto, la società datrice di lavoro non poteva ignorare la “complessiva situazione familiare della lavoratrice” e doveva astenersi dal trasferire la sua sede di lavoro, essendo obbligata al rispetto della Convenzione del 2006 sui diritti dei disabili ratificata con L. n. 18 del 2009, che assicura alle persone disabili un adeguato livello di vita e di protezione sociale.