Con sentenza n. 22726 del 6 novembre 2015, la Corte di Cassazione ha statuito l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che, a seguito di infortunio “in itinere”, aveva goduto di un prolungato periodo di malattia durante il quale aveva svolto varie attività inerenti alla sua vita privata.
Nel caso specifico, l’elaborato peritale depositato in giudizio aveva escluso che l’attività extralavoritiva oggetto di contestazione avesse in qualche modo ritardato il recupero dell’efficienza psico-fisica della dipendente necessaria alla ripresa al lavoro, atteso che “l’impegno funzionale dell’organismo è senza dubbio minore allorquando il soggetto non sia sottoposto agli stringenti ritmi della prestazione lavorativa, ma possa gestire l’attività fisica con maggiore elasticità, magari alternando riposi ad intervalli regolari al fine di non affaticare troppo l’organo o l’apparato interessato”.
I Giudici di legittimità hanno, inoltre, disatteso l’ulteriore tesi proposta della società ricorrente, secondo cui, se la lavoratrice era in grado di svolgere le suddette attività di natura privata, allora, ben avrebbe potuto proporsi per lo svolgimento di mansioni che comportassero un minor impiego lavorativo, così da anticipare il suo rientro in servizio invece di far perdurare il periodo di assenza per malattia. La Suprema Corte, infatti, ha sul punto precisato che, “a fronte di una certificazione medica attestante un’inidoneità al lavoro, il dipendente non è obbligato ad invitare il datore di lavoro a ricevere una prestazione ridotta a quella sola residua porzione che eventualmente egli ritenga possibile: invero, come il creditore della prestazione lavorativa non è tenuto ad accettare un adempimento parziale (cfr. 1181 c.c.), così il relativo debitore non è tenuto ad offrirglielo”.