Nell’ambito di una controversia in cui un lavoratore, dopo avere accettato in passato mansioni inferiori a causa del proprio sopravvenuto stato invalidante, aveva preteso il risarcimento del danno non patrimoniale asseritamente subito in conseguenza del demansionamento configuratosi a seguito della sua assegnazione ad altre mansioni comunque inferiori rispetto a quelle affidategli in sede di assunzione, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 15848 del 10 luglio 2014, ribadendo il proprio consolidato orientamento, ha affermato che “Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ma la sua dimostrazione in giudizio può essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, alla luce della complessiva valutazione di precisi elementi in tal senso significativi – quali le ragioni dell’illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell’ambiente di lavoro dell’attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione, le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale – la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito (Cass. 21 marzo 2012, n. 4479)”.