Con sentenza n. 13726 del 17 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha statuito che “per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, potendo sorgere l’esigenza di una tutela della libertà sindacale anche in relazione ad un’errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l’intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obiettivamente tale da limitare la libertà sindacale”.
Ad avviso dei Giudici di legittimità, affinché si configuri una condotta antisindacale, è irrilevante l’elemento psicologico che ha determinato la stessa, ovvero l’intento di ledere o meno gli interessi di cui sono portatrici le rappresentanze sindacali, laddove la suddetta condotta risulti obiettivamente idonea a produrre il risultato che la legge intende impedire.
Nel caso di specie, la Corte ha concluso per l’antisindacalità della condotta di una società che aveva giustificato il diniego opposto alla richiesta avanzata dalle RSU di fissare un incontro per l’attivazione della procedura c.d. di “raffreddamento” e conciliazione, assumendo di aver erroneamente ritenuto che la richiesta presentata risultasse sfornita di alcuni dei requisiti previsti dal CCNL di settore e dal Protocollo d’intesa.